Roma: Keith Haring deleted
“In the future everyone will be world-famous for 15 minutes”. Profezia è ormai considerata questa asserzione di Andy Warhol, fra l’altro parafrasata da un suo scritto per il catalogo della personale al Moderna Museet di Stoccolma (febbraio-marzo 1968). Anche se, più che “profezia” sarebbe meglio parlare di lungimiranza mediale di un visionario dell’arte che aveva capito tutto, o quasi, del nuovo “potere” e “valore” della comunicazione, dei media e dell’arte, nel mondo della sua contemporaneità.
Figlio di quella frase e di quel contesto di fine anni Sessanta, ma in qualche modo padre di questo nostro nuovo contesto da tsunami del web, è stato sicuramente Keith Haring che tra i primi ha però spostato l’asse della ricerca del “will be world-famous” da un piano mediale a uno più critico e popolar, radicandolo nel contesto urbano di New York prima e delle metropoli mondiali poi. Quelle d’Italia incluse. Tutto ciò nel momento in cui l’espressione e il risentimento giovanile manifestato attraverso l’arte spingeva sempre più per sorpassare i canoni tradizionali di divulgazione e comunicazione e tornare da dove è sempre partito, dai futuristi in poi, dalla strada. Dai quartieri periferici del degrado contemporaneo per assolversi nell’obiezione di una generazione post-conte-stataria – quella del Sessantotto prima e del punk poi – attraverso il segno e il colore che in definitiva andava dilagando proprio nei luoghi da dove proveniva. Dai muri e le palizzate delle metropoli e delle loro periferie alle subway, per finire poi nelle gallerie d’arte del mondo.
Le città, a partire da New York, vengono così invase da un segno che diventa ben presto icona, brand d’artista. E lo sapeva bene lo stesso Haring che aveva frequentato corsi di semiotica per apprendere le tecniche per frammentare e ricomporre i testi senza trascurare il disegno, in un mix vincente che partiva proprio dall’occupazione dello spazio urbano, dall’appropriazione linguistica e dal ribaltamento semantico.
La città ne diventa quindi il naturale habitat da cui origina un’esperienza artistica contro-rivoluzionaria, in termini di ingiustizia sociale, emarginazione e discriminazione di cui Haring è stato un rappresentante deciso, anche se non assoluto. Dal punto di vista ideologico, il rovesciamento estetico ed etico delPuscita dal quadro” fra gli anni Sessanta-Settanta, sintetizzabile nell’espressione ormai storicizzata “dalla Pop Art all’Arte Povera”, inserendovi però anche la Land Art e l’azionismo, ha come punto di arrivo e nuovo scontro ideologico, oltre che estetico, proprio la diffusione mondiale dell’arte urbana, diverso veicolo estetico della nuova contestazione giovanile degli anni Ottanta che è diventata nel tempo, fino al nostro presente, espressione sempre più mordente delle realtà giovanili delle megalopoli del XXI secolo. Nessuna esclusa e Roma inclusa, con una propria storia di arte urbana che prende corpo e vita dagli anni Ottanta, sull’onda del graffitismo newyorkese ma anche dal muralismo politico ed estremista della fine degli anni Settanta, già ampiamente praticato e diffuso nella capitale. Di questa storia, ancora in parte da ricostruire nei suoi micro-organismi visivi e visuali, in questa sede ricordiamo solo un esempio, per così dire, simbolico, il passaggio nella capitale di Keith Haring tramite le immagini di un testimone diretto, il fotografo Stefano Fontebasso De Martino. La cronaca è breve e ridotta al minimo, spesso raccontata sul web con però spostamenti di date, riferimenti e contesti errati, tanto che ci sembra fondamentale in questa occasione tornare a delinearla, intrecciandola però con altre micro-cronache locali e non, che oggi sono e fanno storia. Nel 1984 venne portata per la prima volta in Italia una corposa collettiva di artisti, graffitari e writers newyorkesi1, dal titolo Arte di Frontiera. New York Graffiti2. Prima a Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna (marzo-giugno)
e poi a Roma, Palazzo delle Esposizioni (settembre-ottobre). Il progetto era nato e si era andato sviluppando sulla scia degli studi di Francesca Alinovi, ricercatrice universitaria del DAMS di Bologna e critica d’arte militante, che ho potuto conoscere e apprezzare personalmente durante i miei primi studi sull’arte della sottocultura punk fra Usa, UK e Italia.
Nella capitale Haring, eroe di queH'”arte del futuro che spia con occhi grandi scuri spalancati sul centro dalla periferia, mescolata con i detriti e le macerie della città degradata” (F. Alinovi), in un contesto approvativo formalizzato dalla stessa dalla direzione del museo, interviene sullo zoccolo della facciata del Palazzo delle Esposizioni, lato sinistro verso l’angolo di via Milano.
Il suo segno a Roma è quello ormai tipico della sua arte, elementare ma non minimal, riconoscibile e riproducibile mediati-camente proprio per la creazione di figure simboliche e semplici appunto. Immagini universalmente leggibili e di immediata comprensione per i pubblici e il paesaggio urbano globale.
Haring interviene sulla struttura museale in pieno giorno e in pubblico, come del resto era ormai usuale nelle sue azioni pittoriche, divertendosi e interessando. Così come le fotografie di Stefano Fontebasso De Martino (oggi nella collezione MAGRO – CRDAV)5 bene documentano e storicizzano proprio nell’istante “sacro” del divenire dell’arte. In questo modo Stefano diventa il testimone, nel tempo, di quel Tempo dell’Arte che oggi però non esiste più a causa di un intervento di “decoro urbano”, così viene chiamato tecnicamente, dell’amministrazione comunale che, nel 1 992, Sindaco Franco Carrara, fa cancellare definitivamente l’intervento di Haring sul Palazzo, per occultarlo allo sguardo di Michail Gorbachev in visita ufficiale nella città. Roma. “Per non far sfigurare la città agli occhi del Presidente URSS”, come ricorda Valeria Arnaldi nel suo volume Roma contemporanea: arte a cielo aperto (2016), in modo da sopprimerlo per sempre dalla storia visiva dell’arte urbana della capitale. Sempre di Stefano Fontebasso De Martino6 sono le fotografie (ora di collezione privata) dell’altro intervento artistico di Keith Haring a Roma, realizzato durante un secondo soggiorno dell’artista sui pannelli trasparenti del ponte sul Tevere, dove transita la metropolitana, linea A, del tratto Flaminio-Lepanto. Un’azione pittorica, viva e vibrante, di 6 metri per 2, ad acrilico, sul tema appunto della “fuga del tempo”. Il tempo dell’uomo (lo spettatore) riflesso nel tempo della mobilità (i vagoni della metro), a loro volta riflessi nel tempo della natura (il fiume).
Nel gioco continuato delle trasparenze del supporto sul quale Haring va ad agire, fra struttura tecnologica e fiume su cui si affaccia, l’artista delinea ancora il suo segno intangibile, ossessivo-ossessivante, anche in rapporto con la velocità del mezzo pubblico che corre via fra le trasparenti lastre infrangibili. Fra “alta tecnologia e naturale evoluzione umana”, anche se, come lo stesso Haring afferma nell’intervista della Alinovi pubblicata in catalogo, “(…) le mie immagini, proprio perché hanno a che fare con parole e idee umane sono molto semplici e comuni, sono molto universali, vogliono essere molto universali, ed essere comunicative in modo universale. I miei disegni sono solo disegni, molto grafici, non ci sono stratificazioni o complicazioni d’altro genere. I miei disegni si distendono in superficie e si manifestano per
quel che sono, non c’è nulla di nascosto o di illusionistico”.7 Di nuovo Stefano Fontebasso diventa, suo malgrado e come da noi già definito, come il “testimone, nel tempo, di quel Tempo dell’Arte che oggi però non esiste più”. Anche in questo caso la storia si ripete. Infatti, come riportato dall’agenzia Adnkronos il 7 dicembre 2000, che per prima ha comunicato la notizia riguardante l’intervento di Haring “accuratamente cancellato dagli addetti del Comune (…). Oggi, mentre restano sul ponte della metro le scritte dei tifosi della Roma e della Lazio e qualche foro di proiettile, non vi è più traccia dell’opera di Haring”. A noi posteri l’ardua sentenza, critica oltre che politica.
Claudio Crescentini