DUETTO
Chiarezza di intenti, coerenza e impegno costante appaiono oggi le condizioni indispensabili per un giovane autore che intenda svolgere il proprio lavoro all’interno di un fantomatico mondo della fotografia dove i termini stessi di definizione sembrano magicamente intercambiabili come i conigli o i foulard estratti dal cappello d’un prestigiatore.
Basterebbe in effetti sfogliare una delle numerose riviste dello « specifico » o documentarsi sull’attività delle gallerie per vedere celebrata una delle più im-maginifiche fiere gastronomiche della percezione.
Per quanto sia ancora in vigore una distinzione dei generi — fotografia creativa, reportage, moda, pubblicità… — la differenziazione sembra progressivamente assottigliarsi per approdare al limbo indifferenziato delle equivalenze. D’altra parte questa situazione potrebbe anche fornire i suoi vantaggi. Stabilire la fine di una fotografia di reportage può decidere della fine dei ghetti — dai paradisi esotici, agli inferni del terzo mondo, fino al limbo delle culture materiali o subalterne — che hanno saturato a sufficienza tutti gli immaginari possibili d’una percezione alienata.
Più difficile forse acquisire una visione critica a proposito della fotografia cosidetta « creativa » che può ancora rivelarsi un magazzino inesauribile di gratificazioni contemplative di ammiccanti giochi di atmosfere, di intimismi freudiani, sopratutto se allo svuotamento o alla ridondanza dei contenuti si tenta di provvedere con le risorse di un bricolage tecnologico altamente sofisticato.
Quale, allora, l’alternativa possibile? Innanzitutto è indispensabile il superamento dei generi, magari attraverso un gioco di « ars-combinatoria » come nelle immagini di Stefano FONTEBASSO DE MARTINO, frammenti e tessere della realtà posta in costante e reciproco rapporto. Duetto: II titolo, scelto come sigla di tutto il lavoro, sottende con malcelata ironia l’intimo colloquio che le immagini stabiliscono tra loro, senza più riferirsi a una realtà esterna. Bandita ogni pretesa di rappresentare o di svelare aspetti inediti o momenti irripetibili, queste immagini sottendono piuttosto il gesto del guardare, magari fino a far coincidere questo gesto con gesti quasi identici iscritti in quell’immenso tabulano su cui domina l’insegna del « deja-vu ».
Ma anche questo fa parte del gioco: Preso atto che la realtà assomiglia sempre più a un colossale fotomontaggio, basta accostare due immagini fra loro per accorgersi che solo nello spazio della loro « differenza » si può ancora tentare di misurare lo spazio sempre più ridotto che separa la realtà dalla sua immagine di riproduzione.
Ennery Taramelli